L'ALFIERE ottobre 1992
Non c'è vicenda storica più stupenda dell'unificazione politica del Sud sotto la Casa d'Altavilla: un pugno di cavalieri poveri e avventurosi vince un Impero, un Papa, due Principati e molte Città libere, e fa in pochi anni di una lunga anarchia un Regno saldamente unito. Una conquista che è frutto di astuzia e di valore, e di gesta veramente medioevali:
ma che sarebbe romantico e riduttivo voler interpretare solo alla luce dei meri fatti di guerra. Al contrario, se i Normanni batterono in campo gli eserciti e sottomisero le genti, la stessa facilità dell'impresa (una sola battaglia merita davvero questo nome, quella di Civitate del 1053 contro le schiere, per altro raffazzonate, di Leone IX) mostra bene come la marcia trionfale dei Normanni venisse accompagnata quasi sempre da una forma di consenso più o meno consapevolmente esplicitato. Intanto le truppe di Roberto Guiscardo venivano in larga misura dalla Calabria, tanto che a Civitate i mercenari tedeschi del Papa si vantarono, invero smentiti dai fatti, che avrebbero massacrato quegli avversari "neri di pelle e bassi di statura", che invece fecero a pezzi loro; i Longobardi di Salerno del resto si sentirono subito congiunti di Roberto, dopo il suo accorto matrimonio con la fiera Sighelgaita. Gli stessi italo-greci di Puglia e Calabria, sempre più distanti dal fiscale governo di Bisanzio, finirono per inserirsi nel nuovo sistema e così fecero i monaci Basiliani, onorati e protetti dai nuovi signori; una qualche resistenza la offrirono le gerarchie ecclesiastiche di obbedienza costantinopolitana, tanto più dopo la scisma del 1054: ma i Normanni se ne sbarazzarono senza troppi scrupoli, anzi adempiendo ad un esplicito incarico del loro nuovo alleato ed alto signore, il Pontefice romano. Quanto agli Arabi di Sicilia ed agli Ebrei sparsi un po' dovunque, l'astuta tolleranza dei sovrani ne assicurò una fedeltà destinata a lungo avvenire. Il motivo di fondo di questo consenso è che i molti popoli del meridione Latini, Longobardi, Greci, Arabi, Ebrei, da troppo tempo versavano in un disordine che nessuno era riuscito a dirimere, ed in continue, sterili guerre che nessuno vinceva. Le contrade erano separate da frontiere senza senso, per altro capaci di dar fastidio agli innocui viaggiatori, ma non di arrestare un'invasione. I popoli erano disposti ad accettare qualunque buon governo li liberasse da regimi che non sapevano o non potevano assolvere ai loro doveri: il forte e giusto scettro dei Normanni bastò a dar corpo alle speranze delle stirpi: e, nonostante tante e non sempre fortunate vicende, a formare una coscienza unitaria e monarchica dell'Italia meridionale, che non si è ancora del tutto perduta. La dinastia normanna assicurò dunque al Meridione la pace, e favorì l'integrazione economica e culturale di una vasta area che la natura stessa destina a costituire un tutto solidale. E, diciamolo senza infingimenti, ad una sua separatezza: la Casa d'Altavilla, soprattutto quando a prevalere fu il suo ramo calabro-siculo (nel 1130 Ruggiero II, figlio di Ruggiero gran conte di Calabria e Sicilia, si imponeva anche su Salerno e la Puglia, e si proclamava in Palermo Rex Siciliae et ducatus Apuliae et princip atus Capuae) seguì il principio di non lasciarsi coinvolgere mai troppo dagli intricati casi dell'Italia Centrale e Settentrionale e nelle interminabili contese tra Comuni, Papato ed Impero, guardando piuttosto al Mediterraneo, all'Africa ed alle terre di Oltremare. La flotta siciliana represse la pirateria barbaresca, e si spinse a conquistare varie posizioni sulla costa oggi detta libica; partecipò alle Crociate, senza per questo che il Regno guastasse troppo i buoni rapporti culturali e commerciali con il mondo islamico; fece del Sud d'Italia una grande potenza marinara e mercantile. Alla metà del XII secolo, il Regno di Sicilia veniva considerato il più ricco d'Europa: ed il più saldo, giacché i suoi sovrani potevano contare non solo e non tanto sopra riottose milizie feudali, ma sopra veri eserciti stanziali, tratti anche dalla popolazione araba di Sicilia. E infatti, se è vero che i Normanni introdussero il feudalesimo in un territorio che ne era storicamente esente, è ancora più vero che essi, e del resto i loro successori, non consentirono mai ai vassalli di arrogarsi prerogative regie, o di agire contro le leggi del Regno. Fu mala sorte del Meridione che la Casa di Altavilla si estinguesse con Guglielmo II il Buono (1166-1189), e questi lasciasse erede l'infelice Costanza tardivamente e contra suo grado maritata ad Enrico IV di Svevia; e da essi nascesse il troppo grande Federico-Ruggiero (1198-1250), Federico II sul trono imperiale, il quale si servì del suo prediletto Reame siciliano e delle sue ricchezze per le sue troppe e non fortunate guerre in Italia, in Terra Santa e in Germania. Era una stridente contraddizione con la politica dei Normanni, che nessuno nel Regno capì ed accettò: e, per quanto rimanga ancora cara ai popoli la memoria del puer Apuliae, per le genti del Meridione Federico resta significativamente non l'Augusto del Sacro Impero, ma proprio e solo il Re di Sicilia. Suo figlio Manfredi tornò a proiettarsi nel Mediterraneo, disinteressandosi affatto delle vicende europee ed italiane. Diede sua figlia Costanza all'erede di Aragona; sposò in seconde nozze Elena d'Epiro; strinse rapporti con l'Egitto. Tuttavia una certa sua indolenza di carattere ed un'eccessiva sicurezza lo condussero alla sconfitta di Benevento (1266), dove fu bugiardo/ ciascun Pugliese: i feudatari lo tradirono per l'Angiò. Quella del principe francese fu nel Meridione una vera operazione di conquista coloniale; o piuttosto neocolonialistica: Carlo I senza troppo accorgersene non fu che il braccio armato dei grandi mercanti guelfi fiorentini, i quali, forti del dollaro del Medioevo, il fiorino d'oro, misero le mani sull'economia e sui traffici del Sud, impedendo di fatto la formazione di un ceto medio mercantile. Per secoli il Regno restò prospero produttore di derrate agricole e di ottimo artigianato (nel XVI secolo nella sola Catanzaro erano in opera ben mille telai di seta!), ma la loro commercializzazione, e perciò i più lauti guadagni, vennero in mano alla grande finanza straniera. Con tutto questo, gli stessi sovrani angioini e durazzeschi, e dopo di loro quelli d'Aragona e di Spagna, continuarono ad esercitare la loro primaria funzione storica di arbitri tra i ceti sociali, impedendo ai feudatari un certo loro progetto, di frantumare il Regno in una sorta di confederazione di signorie di fatto indipendenti come quelle dell'Italia Settentrionale. Sotto il lungo e poco felice regno di Giovanna I i baroni parvero vicini al loro scopo: ma li arrestarono prima Ladislao (1386-1414), poi Ferrante I (1458-1494), infine e definitivamente i viceré spagnoli. Sotto di questi, quindi sotto Carlo e Ferdinando IV di Borbone, i feudi non furono che circoscrizioni amministrative del Regno, in cui una famiglia esercitava ereditariamente dei poteri statali, ma sempre e solo per delega del Re, e sempre secondo le stesse leggi dello Stato. Se non mancarono, a volte, prepotenze e sfruttamenti, essi non furono, nei feudi del Reame, né maggiori né minori di quelli di qualsivoglia altro sistema politico: e certamente nessun duca napoletano fu mai così arrogante, così ladro (e così impunito!) come un presidente di USL di oggi socialista o democristiano! A far rispettare la giustizia per tutti (non uguale per tutti, che è un sofisma giacobino, ma unicuique suum, secondo i tempi), restava sempre il Re, in un'epoca di cui si è detto capziosamente ogni male, ma in cui ogni suddito coraggioso poteva dire, con il mugnaio tedesco: "Alla fine, c'è un tribunale a Berlino!" E c'erano tribunali a Napoli, che pignoravano i feudi ai baroni insolventi, come avvenne ai nobilissimi Sanseverino di Bisignano; che riservavano sempre l'ultimo giudizio al Re. Il Re che difendeva le coste dai pirati e le frontiere dagli appetiti forestieri ed intimoriva i prepotenti. E, quando altro non poteva, mostrava da lontano al popolo una qualche speranza di redenzione. Il Re, probabilmente, per i Napoletani, divenne una figura ideale, un mito di giustizia, chiunque sedesse sul trono, o persino chiunque governasse o sgovernasse in suo nome. Per il Re si batterono e morirono i soldati sul Volturno e a Gaeta, per il Re i briganti e i cafoni caddero sotto il fuoco dei Piemontesi. E forse tutti i Re di Napoli, al di là dei loro umani errori, non furono tutti che uno solo nella memoria collettiva, il Re Ruggiero d’Altavilla di Sicilia, archetipo e mito fondatore di una coscienza comunitaria delle genti meridionali che, dopo un secolo e mezzo di smarrimento forzato dell'identità, non è forse del tutto perduta.