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L'ALFIERE

ottobre 1992

Ora non ci vogliono più. Al Nord sono convinti di essere già pronti per l'Europa, con grandi concentrazioni industriali,

comunicazioni ravvicinate col cuore del Continente, cittadini intraprendenti e laboriosi, un prodotto pro capite nettamente superiore al resto della Penisola. E il Sud non serve, è una fastidiosa palla al piede, è una insopportabile lagna, con la sua Questione cronicamente irrisolta.

Non così la pensarono lombardi e piemontesi negli anni ruggenti del Risorgimento, quando chi osava sollevare obiezioni alla violenta unificazione veniva sommariamente condannato come barbaro e oscurantista. Ai Brambilla dell'epoca la pur saggia e civile amministrazione austriaca andava stretta. Il Lombardo-Veneto era la regione più prospera dell'Impero e, quel che più conta, forniva a Vienna, a differenza di cechi, ungheresi, sloveni, croati, un gettito tributario troppo cospicuo per poter essere considerato equo. Allora, perchè non liberarsi di Francesco Giuseppe e farla da protagonisti? Come? Col Piemonte, l'unico stato italiano irrequieto, guerrafondaio, avido di ingrandimenti territoriali, che avrebbe dovuto non solo liberare Milano e Venezia, ma che, siccome da solo non avrebbe potuto fronteggiare stabilmente la potenza austriaca, 'avrebbe dovuto anche annettersi tutta la Penisola, in modo da aver denari ed uomini sufficienti a garantirgli i conseguiti confini.

La conquista del Regno delle Due Sicilie, col suo capitale di moneta circolante di 443 milioni di allora, superiore a quello di tutti gli altri stati italiani messi insieme, con la sua enorme riserva di braccia per la vanga, il tornio o il fucile, fu il mezzo indispensabile per realizzare i sogni egemonici del Nord. Il Piemonte, per terra e per mare, ebbe più batoste che vittorie nelle contese con gli Austriaci, ma, di volta in volta, la provvida mano della Francia, della Prussia, dell'Inghilterra lo trasse in salvo e gli elargì, gli ingrandimenti sperati, secondo un piano assai più ampio che vedeva la massoneria internazionale impegnata a distruggere, in Europa, da un lato, le ultime vestigia imperiali e, dall'altro, la stessa Chiesa cattolica.

Il Sud fu occupato e saccheggiato; il suo sistema industriale smantellato e la sua agricoltura vessata da rapaci balzelli; milioni di "cafoni", recalcitranti e ribelli al "nuovo ordine", furono invitati ad andarsene, "indegni dell'Italia" come li giudicavano i giornali di Torino; ed emigrarono in massa per le Americhe. L'affare fu così fatto. Il Nord doveva essere il centro politico, economico, produttivo della Penisola. E tale fu ed è rimasto fino ai nostri giorni.

Se non che, oggi, il cosiddetto "mito fondante" del Risorgimento è un ferro vecchio. L'Europa è cambiata. Non più nazionalismi, ma concertazioni economiche d'ampio respiro, cui partecipa e in cui vince chi più ha. E il Nord soffre di nuovo; e non vuole intorno a sè parenti 'poveri; e vede il Sud come un impaccio, in un ruolo retrogrado che, agli albori del Risorgimento, imputava all'Austria.

Si fa strada l'idea federalista. Non più unità, ma unione. Si omette però di fare il processo al Risorgimento che fu unità, anzi forzata unificazione proprio per favorire le ingordigie del Nord. Quel che è fatto è fatto. E il Sud sembra tacere, tra le macerie di una lunga politica devastatrice, con l'Europa che si fa ostile e lontana. Gli resta la memoria, che va recuperando, dei tempi in cui era padrone del proprio destino; gli resta la linea porpurea di sacrifici e di sangue resi a una Patria ingrata.

Qualcuno dirà: Calma, siam pur sempre una Nazione, e Maastricht attende anche noi a braccia aperte. Altri si illuderà ancora: La questione meridionale non è chiusa, ci restituiranno il mal tolto.

E' certo, però, che l'opinione corrente al Nord è tutt'altra. In sè costituisce una sfida. E alle sfide non si risponde chiedendo un posto a tavola. Ma innalzando la bandiera dell'orgoglio. Ogni speranza, ogni progetto, ogni traguardo può crescere solo se radicato in questo sentimento legittimo e fecondo.

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